TUTTO INIZIO’ A TORINO
ALESSANDRO VERDECCHI 09/02/2020
Tutti pensano che il cinema italiano è essenzialmente romano, che Roma è la capitale del nostro cinema, che tutto iniziò a fine 800 a Roma …. ma non è così. L’alba del nostro cinema fu a Torino. Strano ma vero. Perché poi si spostò a Roma? Credo sia accaduto tutto nell’ottica della concentrazione dell’Italia nella centralità della nuova capitale del regno …. non più Torino ma Roma. Poi , dopo il 1920, l’avvento del fascismo ne segnò il destino. Non so se fu un buon affare ma andiamo a vedere come il tutto accadde.
A Torino il Cinématographe Lumière giunse relativamente tardi.
Solo il 7 novembre 1896, quasi un anno dopo la prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière a Parigi, fu organizzata una serata cinematografica in una sala appositamente attrezzata dell’ex Ospizio di Carità in via Po 33, alla presenza di un pubblico scelto, fra cui lo stesso sindaco di Torino. A organizzarla era stato Vittorio Calcina che, nato a Torino nel 1857 (vi morirà nel 1916). Calcina faceva di professione il fotografo e rappresentava per l’Italia la “Société Anonyme des Plaques et Papiers Photographiques A. Lumière et Ses Fils”.
L’evento suscitò molta curiosità. Il programma prevedeva il passaggio sullo schermo di venti film realizzati dagli operatori di Lumière. La proiezione riscosse un notevole successo. Ma più che uno “spettacolo” nel vero senso della parola, fu una serata didattico-scientifica, e l’interesse del pubblico fu rivolto soprattutto alla novità del procedimento tecnico che consentiva la riproduzione della realtà in movimento. Si trattava, in altre parole, di una dotta e piacevole conferenza, in cui l’ultima scoperta nel campo della fotografia – la “fotografia animata” – era illustrata da una serie di esempi particolarmente vivaci e istruttivi: per l’appunto, come altrove, l’arrivo del treno in stazione, i bambini che giocano, la corsa dei ciclisti ecc.
L’evento ebbe una grande risonanza culturale e mondana, grazie alla quale a Torino si aprirono ben presto le porte a uno sfruttamento commerciale del cinema.
Calcina, infatti, capisce l’importanza di questa novità della così detta “fotografia animata” e organizza nei medesimi locali una serie continua di proiezioni cinematografiche.
Annunciava al pubblico le proiezioni con un manifesto accattivante. La grafica era particolarmente curata. In alto, in bella mostra, una grande immagine della sala addobbata, con il palcoscenico, lo schermo illuminato e un folto gruppo di spettatori che dalla platea guardavano lo schermo affascinati. Sui lati le scritte «Cinematografo Lumière» e «Fotografia Animata». In basso l’indirizzo della sala, gli orari e i prezzi: «Via Po 33. Tutti i giorni, sedute serali dalle ore 20 alle 23. Giovedì e giorni festivi, sedute diurne dalle ore 14 alle 18. Ingresso cent. 50. Militari di bassa forza e ragazzi metà prezzo». Lo spettacolo durava circa venti minuti, ma in compenso costava poco. Il programma non era molto diverso da quello della prima serata del 7 novembre, ma tuttavia cambiava
ogni settimana e si arricchiva nel corso dei mesi seguenti, con grosso afflusso di pubblico a conferma dell’enorme interesse che questa novità raccoglieva. La programmazione nella improvvisata sala di Via Po durerà fino alla primavera del 1897, dopo di che la chiusura fu definitiva ma ormai la frittata era fatta: “il pubblico torinese cominciava ad amare questa nuova forma di spettacolo”.
Chiusa la sala di Via Po, l’infaticabile Calcina, sempre insieme all’amico Pasquarelli, suo socio d’affari, sposta le proiezioni alla birreria Sala di Via Garibaldi 10. Spettacoli che
continueranno sino alla metà di giugno, interrompendosi solo nei mesi estivi. Ormai il cinema cominciava a fare parte degli intrattenimenti torinesi di fine secolo. Sdoganato ufficializzato, se ne parlava, si andava con la famiglia o con gli amici alle proiezioni di Via Garibaldi, se ne discuteva al caffè, se ne scriveva anche sui giornali. Il cinema era entrato nel giro torinese della cultura ufficiale. Tanto per fare un esempio , nell’autunno del ’97 il Teatro Carignano annunciava gli spettacoli nel cartellone della nuova stagione teatrale: “dal 5 al 24 novembre 1897 vi saranno, nel grande tempio torinese della prosa, regolari proiezioni cinematografiche”.
Ma Calcina non si fermò all’organizzazione delle proiezioni dei film realizzati da Lumière. Realizzò brevi documentari che proiettava in sala insieme ai film francesi. Calcina era un buon fotografo e aveva anche un buon senso degli affari. Con la produzione di questi brevi documentari girati da lui da il via “all’industria cinematografica italiana”. Sempre Calcina andò oltre il documentario. Proprio in quei mesi cominciò a riprendere “scene dal vero”. Un certo numero di film li realizzò per conto della Casa Lumière di cui era rappresentante esclusivo, altri per conto proprio. Realizzò soprattutto i documentari “ufficiali” sulla famiglia reale, divenendone il fotografo ufficiale.
Il 20 novembre 1896 girò a Monza “Le LL. MM. il Re e la Regina (al R. Castello di Monza) “, film conosciuto anche col titolo “S.M. il Re Umberto e S.M. la Regina Margherita a Monza “. Poco dopo girerà “Uscita del Corteo Reale (dal Quirinale – Roma)” e “Dimostrazione popolare alle LL. AA. i Principi Sposi (al Pantheon – Roma)”, altri due documentari, questa volta su Vittorio Emanuele ed Elena di Montenegro, che si sposarono il 3 dicembre di quell’anno.
Insomma a Torino, come contemporaneamente accadde nelle altre principali città italiane, l’invenzione dei fratelli Lumière si andò diffondendo a macchia d’olio, attirando un pubblico sempre più vario e numeroso. In quel fine secolo il cinema pose le sue pietre miliari per la grande evoluzione che oggi vediamo a livello globale.
Nel primo decennio del Novecento a Torino, Roma e Milano nascono le prime case di produzione.
A Torino, dopo il primo entusiasmo per i brevi film dei Lumière, di Calcina e di pochi altri improvvisati, si comincia a pensare seriamente di “fare del cinema” in proprio. Superare la fase iniziale della curiosità e dell’entusiasmo e iniziare con una produzione regolare di film. Seguire quanto era già accaduto a Parigi con i Lumière e soprattutto con Charles Pathé, che può essere considerato, a buon diritto, il primo vero produttore cinematografico del pianeta.
A questo punto entra in scena Arturo Ambrosio. Uomo con un certo spirito d’avventura, coraggio imprenditoriale, e grande curiosità.
Nato a Torino nel 1870, morirà nel 1960. Arturo Ambrosio nel volgere di pochi anni, si affermerà (come in Francia il citato Pathé) come il primo autentico produttore cinematografico. Altri italiani, prima di lui o contemporaneamente a lui, avevano imboccato la nuova strada del cinema, acquistando macchine da presa, fabbricandosele, riprendendo la realtà in movimento e restituendola sullo schermo davanti a un pubblico estatico e incuriosito, ma fu certamente Ambrosio a fare del cinema la sua ragione di vita, a comprenderne appieno le possibilità commerciali, a intuirne gli sviluppi successivi. Ma chi era Ambrosio? Rimasto orfano, si diploma in ragioneria e studia anche il violino. Impiegatosi in una ditta di tessuti, presto si licenzia per seguire la sua vera grande passione, la fotografia. Apre un laboratorio fotografico, uno studio di posa, un negozio di fotografia in via Roma 2, nel centro della città di Torino. Costruisce un proprio apparecchio da ripresa, l’“Ambrosio”. Con l’inizio del nuovo secolo è un uomo affermato e conosciuto. Con l’aiuto del suo operatore Giovanni Vitrotti, diventa (dopo Calcina) il fotografo ufficiale della famiglia reale. Di qui il passaggio dalla fotografia al cinematografo con le prime riprese cinematografiche nel 1904 e poi la costruzione del primo teatro di posa, fu cosa immediata. Con i primi guadagni acquista e gestisce una propria sala cinematografica.
Tutto molto artigianale, senza un vero e proprio piano di sviluppo organico,sull’onda dell’entusiasmo, ma già con una visione globale del problema, Ambrosio stava realizzando quel modello produttivo che, per almeno un decennio, avrebbe consentito alla cinematografia torinese di affermarsi in campo nazionale e internazionale. Il modello, cioè, di un ciclo conchiuso di lavorazione e di sfruttamento commerciale del prodotto: la progettazione, la realizzazione, la distribuzione, l’esercizio. In ogni fase di questo ciclo produttivo occorrevano competenze che Ambrosio andò cercando attorno a sé. Furono pertanto scritturati attori, registi, operatori, soggettisti, scenografi; si formarono, in altre parole, le prime troupe cinematografiche, che sarebbero state per molti anni la struttura portante di una casa cinematografica sempre più solida e attiva. Era quel cinema torinese che a cavallo degli anni Dieci si sarebbe affermato non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Un cinema che poteva essere definito senza dubbio “il cinema muto italiano per eccellenza”. Ambrosio produce documentari di più ampio respiro, e poi brevi film drammatici, comici, avventurosi. Altri seguirono Ambrosio, altri si diedero alla produzione cinematografica, e nel volgere di pochi anni, diedero vita a una produzione continuativa e sempre più curata tecnicamente. Nel 1906 Ambrosio fonda la sua casa di produzione, che l’anno dopo diventa l’Anonima Ambrosio, con un capitale sociale di 700.000 lire, una cifra piuttosto cospicua per quei tempi. Segue Camillo Ottolenghi che costituisce l’ Aquila Film. Carlo Rossi e Guglielmo Remmert creano la Rossi & C. In seguito Sciamengo e Pastrone, fondano l’Itala Film, che diventerà una delle case cinematografiche torinesi più importanti del tempo, se non la più importante.
A queste se ne aggiungeranno, fra il 1907 e il 1915 (anno dell’entrata in guerra dell’Italia), più di dieci, raggiungendo il numero di circa trenta entro il 1920 (anche se non poche spariranno presto o produrranno un solo film).
Attorno agli anni Dieci Torino è una città in cui il cinema ha posto le sue radici.
Non solo, ma accanto alle case di produzione nascono le sale cinematografiche, sempre più numerose e sparse in ogni quartiere della città; e le stesse sale diventano il luogo di ritrovo di una società che, a poco a poco, abbandona i caffè e i teatri per scoprire il nuovo fascino delle immagini semoventi. Dal documentario e il breve film comico, il passo fu breve verso il più vasto campo del film di medio e lungometraggio. Drammi passionali, film storici e mitologici, avventure esotiche , commedie di costume. Sulle rive del Po, nei teatri di posa, in collina e nella pianura circostante si girano quotidianamente film su film, che trovano poi, sugli schermi cittadini e nazionali, spesso anche internazionali, il loro pubblico entusiasta.
Qualche anno dopo, in occasione dell’apertura durante le feste natalizie del 1913 del nuovo Cinema Ambrosio – il miglior cinema della città, che si aggiungeva ai circa settanta che allora esistevano a Torino –, si poteva leggere sul periodico “Vita cinematografica“: «Nelle ore pomeridiane avanti al Cinema Ambrosio, ove si susseguono interessanti films, quanto di migliore conti l’applaudita produzione italiana, si vedono sempre lunghe teorie di automobili e di carrozze, il che dimostra il grande favore incontrato da questo nuovo Cinematograto fra il nostro pubblico più scelto. Entrate grandiose, rischiarate da grandi lampade ad arco, immettono nelle sale di attesa, ove si ha una scelta orchestrina di Tzigani, che con musica graziosa interessa vivamente il pubblico. Le sale di attesa dei vari posti sono larghe e spaziose ed artisticamente decorate con stucchi e con statue.
Sicuramente altre sale rispetto a quelle di oggi.
Sullo sfondo di questa Torino “cinematografica”, vera capitale del cinema italiano di quegli anni, i produttori si davano da fare per dare al pubblico spettacoli sempre più allettanti, grandiosi, affascinanti.
Nel 1911, all’Esposizione Internazionale che si tenne a Torino nel parco del Valentino e lungo le sponde del Po, non poteva mancare il cinematografo, strumento ormai diffusissimo d’intrattenimento e di spettacolo. Mezzo tecnico-artistico che poco alla volta assumeva la funzione simbolica di “arte del ventesimo secolo”. Un intero padiglione era dedicato esclusivamente al cinematografo, e in questo padiglione passarono, per tutti i mesi che durò l’Esposizione, film d’ogni Paese, un vero e proprio primo festival internazionale del cinema, con tanto di giuria e di premi.
Alla Casa Ambrosio andò il primo premio per la categoria “artistica” con il film Nozze d’oro di Luigi Maggi, su soggetto di Arrigo Frusta, d’argomento risorgimentale.
Arturo Ambrosio aveva portato la sua produzione a un alto livello tecnico-artistico.
Già nel 1908 aveva preso contatti con Gabriele D’Annunzio per la riduzione cinematografica di alcuni suoi testi. Infatti, tra il 1911 e il 1912 produsse sei film tratti rispettivamente da sue opere : “La fiaccola sotto il moggio, Sogno di un tramonto d’autunno, L’innocente, La Gioconda, La figlia di Jorio, La nave”.
Nel 1913 fu la volta dei “Promessi sposi” dal romanzo di Manzoni, ridotto da Frusta e diretto da Eleuterio Rodolfi. Ma soprattutto gli “Ultimi giorni di Pompei”, tratto dal romanzo di Lytton Bulwer, diretto da Mario Caserini e fotografato da Vitrotti, fu uno di quei grandi film storici che furono una delle specialità del cinema italiano muto, non solo torinese (basti pensare ai film romani di Enrico Guazzoni).
Sempre nel 1913 ci fu il successo strepitoso di Ma l’amor mio non muore, prodotto dalla Gloria Films, diretto da Mario Caserini, interpretato da Mario Bonnard e Lyda Borelli, due dei più famosi divi del tempo.
Ed è ancora nel 1913 che Giovanni Pastrone, certamente l’autore più importante dell’intero cinema muto italiano nella sua duplice veste di produttore e regista, diede inizio alle riprese di Cabiria, il film storico in cui fu coinvolto, per le didascalie magniloquenti, Gabriele D’Annunzio. L’opera, che uscì nel 1914 ottenendo un successo di pubblico e di critica straordinario, superiore a quello di tutti i film storici italiani precedenti e successivi, è ampia, sontuosa e articolata (circa tre ore di proiezione!).
Pastrone riesce a dare alla materia narrativa e drammatica un eccellente spessore , a conferire allo spettacolo – che c’è e affascina per la grandiosità della messinscena – uno spessore drammaturgico raro per quei tempi. È come se i modelli del cinema storico, alquanto ripetitivi e rigidi, fossero d’un colpo ribaltati nella nuova dimensione di un film che non si accontenta di seguire la strada battuta, ma vuole al tempo stesso stupire lo spettatore, coinvolgerlo, portarlo a un alto grado di attenzione e partecipazione emotiva. In altre parole, non vuole solo intrattenere ma anche emozionare, facendo dello schermo cinematografico il luogo di una nuova forma di dramma.
In questo senso Pastrone, che produsse moltissimi film sino e oltre il 1920 e ne diresse un certo numero, può essere considerato il simbolo del cinema muto torinese.
Il decennio che segna la sua massima affermazione – da La caduta di Troia del 1910 a Hedda Gabler del 1920 – è anche il decennio che segna l’affermazione, e poi il declino, del cinema a Torino.
Tra il 1910 e il 1920 (all’incirca), si colloca la grande stagione del cinema torinese, che si impose proprio per l’eccellenza e l’abbondanza dei prodotti, per la varietà dei generi e degli stili, per la ricchezza delle proposte filmiche. Una produzione che ancora oggi – vedendo i non molti film conservati, fra i moltissimi realizzati – ci può stupire e far riflettere, se confrontata con la maggior parte dei film coevi, italiani e stranieri. Nel senso che in essa confluiscono i diversi caratteri non soltanto della cinematografia italiana, ma anche e soprattutto della società, del costume, della cultura, della moda, della mentalità di una nazione che stava attraversando un periodo solo apparentemente tranquillo, statico, uniforme. Una società che invece covava al suo interno i fermenti di una trasformazione che si sarebbe manifestata qualche anno più tardi, dopo la fine della Prima guerra mondiale, con l’avvento del fascismo.